Descrizione
Adam Jones è uno chef stellato che ha distrutto la sua carriera indulgendo nelle droghe, nel sesso e nel caratteraccio. Dopo aver espiato le sue colpe strofinando un milione di ostriche sotto i rubinetti della Louisiana, torna a Londra, determinato a rimettersi al timone di una cucina d’eccellenza e a guadagnare la tanto ambita terza stella Michelin.
Appartiene all’anima commerciale delle sceneggiature di Steven Knight, Il sapore del successo , o almeno alla più convenzionale, quella che lo scrittore lascia volentieri in mano ad altri registi. La preparazione è ultra classica, con il colpo di scena ben piazzato (e ben assestato), il grande goal del riscatto, e qualche elemento più recente ma già prepotentemente digerito attraverso il tubo catodico e adattato a cliché, quale lo star-system dei cuochi maschi, così esigenti e intrattabili ai fornelli e così fragili e dipendenti quando è l’ora di spegnere la fiamma e farsi una vita fuori dalla cucina.
Mezzo Bourdain e mezzo Burton, con il mito di Gusteau (qui il fantomatico Jean Luc) che fu del topo Rémy e l’occhio azzurro alla Jamie Oliver, il personaggio di Bradley Cooper mette a dura prova la sua credibilità in cucina e tra i banchi del mercato, ma alla fine non la spunta, non ci convince del tutto. Anche se i titoli di coda non ne recano traccia, ci sembra di vederlo che, sbrigato l’ultimo ciak, si affretta a dire adieu ai fiorellini e ai bicchierini di mousse per farsi una fast birra e una fast bistecca. Diverso il discorso per Sienna Miller, più naturale e attendibile. Suggella la fiaba la fata madrina Emma Thompson, che non ha smesso del tutto i panni di Tata Matilda, nonostante ora si occupi più dichiaratamente di psicoterapia a domicilio.
Tutto si tiene, per quanto in bilico, per quanto schematico, basta far finta di non vedere la voragine interna, ovvero la mancanza del cibo. Nessuno pare essersi ricordato di inquadrarne la preparazione, di farne un oggetto del discorso o di utilizzarlo per illuminare l’identità del personaggio, così sfuggente per non dire carente. Quel che conta è l’impiattamento, la confezione.
Ma se fiaba dev’essere, piuttosto che la retorica fintamente sofferta della rivincita che passa dall’accettazione del fallimento, meglio quelle ricette d’amore ormai d’antan in cui Castellittocurava nevrosi femminili e lutti infantili con degli spaghetti al pomodoro di cui, da bravo attore, riusciva a far intuire il profumo. Qui in cucina c’è Scamarcio, ma sta nelle retrovie, non può nulla per salvare la situazione
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